
VENE APERTE
di Edith Moniz – traduzione di Paolo D’Aprile
VENE APERTE
Tre navi del ducato di Bretagna, due delle quali di cento e quaranta tonnellate, e l’altra di ottanta tonnellate più o meno, furono inviate alle terre del Brasile per riscuotere legni del Brasile e altre mercanzie di grande utilità ai nostri regni, terre, signorie e sudditi, e queste navi che hanno ancorato in un certo porto e rifugio di quella terra, posero e sventolarono le bandiere e i suggelli di Francia e del ducato di Bretagna, che fosse caricata grande quantità di legni del Brasile, grande numero di animali strani e uccelli…
(Cristovão Jacques, navigatore. Carta ai Re, Secondo Viaggio al Brasile, 1527)
E che le navi all’orizzonte partano e tornino infinite volte, che continuino a rubare tutto. Della nostra terra non rimane più nulla, solamente il vento a soffiare tra l’abbandono e la miseria delle baracche. Potete andare, portatevi via per sempre il vostro oro. Non ne abbiamo bisogno, non ne vogliamo. Secoli di vene aperte ci hanno immunizzato: non più “legni, animali strani, uccelli”, adesso rimaniamo noi. Solamente noi.
Giorni rilucenti di plastica, giorni di ronzii e voci sovrapposte. Giorni di solitudine, sofferenza e morte. Solitudine infiltrata tra i milioni di passanti delle metropoli, nei colori infami della felicità imposta. La speranza di un popolo affogata nei dollari della corruzione, tradita nelle promesse di governanti sottomessi a interessi decisi altrove, la speranza di un popolo continua a sopravvivere nella semplicità di un gioco silenzioso, nel sorriso di una vecchia donna, nelle rughe di una vita costruita nel tempo senza tempo degli enormi spazi ancora da riempire del cuore degli uomini. Per questo l’immagine muta del silenzio della mia gente è più eloquente di qualunque parola sempre assassinata sul nascere. La voce del mio popolo è il suo silenzio, la voce del mio popolo è letta nelle viscere della polvere che attraversa le sue case, nei giochi primordiali di bambini che fin dalla nascita sanno già tutto. La voce scalza della mia gente attraversa la miseria che le hanno costruito addosso e veste il suo miglior vestito per, finalmente, riconoscersi e rincontrarsi con se stessa. La voce degli sguardi, la voce che niente ha da aggiungere a ciò che è già stato detto dalla sua semplice presenza. La mia gente parla la lingua del mondo, senza chiedere niente a nessuno, adesso dice: io esisto, io sono.
L’amico Giulio, capace di guardare tra le cose, per mezzo dell’immagine registra, dice e interpreta il linguaggio segreto della luce. Per questo è dei nostri.
Muito Obrigada
Edith Moniz
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